Miliardopoli e Di Stefano
Fra le tante cose che ripeto e alle quali pochi credono, c'è quella che vuole il calcio l'azienda più importante del Belpaese, per un fatturato che nessuno può quantificare. Il caso vuole che abbia trovato conferma nel Corriere dello Sport-Stadio del 1998, dove l'allora Presidente della FIFA dava i numeri al calcio. Joao Havelange, infatti, nell'intervista natalizia rilasciata al quotidiano di Rio de Janeiro O dia, diceva che era la multinazionale numero uno al mondo, con un fatturato che superava i 225 miliardi di dollari. Al tempo le prime cinque società per valore di capitalizzazione in borsa erano la Nippon T&T con 213, la General Motors 170, la Royal Dutch-Shell 150, la General Electric 139 e la Mitsubishi Bank 126. In Italia guidavano la classifica le Assicurazioni Generali, che occupavano la 76esima posizione, con 34 miliardi. Un giro d'affari che non conosceva bevanda, cereale o prodotto commerciale e poteva competere con le sterminate praterie illegali dei traffici internazionali. Non a caso i nomi dei presidenti dei maggiori club corrispondono a quelli dei più importanti industriali di ogni Paese. Se pensate che Artemio Franchi, che dopodomani sarà ricordato nel 60° anniversario del Centro Tecnico di Coverciano, era Vicepresidente vicario della FIFA, Presidente della UEFA e delle Commissioni Arbitrali della FIFA e dell'UEFA, e quindi il numero uno del calcio, viene da far tremare i polsi a quelli che dal 22 ottobre hanno il comando della FIGC per riportarla al posto che le compete.
Sono certo che anche quando cerco di smitizzare la figura dell'allenatore, che non può percepire cifre incredibili solo per essersi costruito personaggio, ci sarà chi obietta. Ma se a 40 anni un calciatore mi spiegò che in campo andavano loro ed erano i soli che potevano decidere la partita, non potevo non credergli. Il messaggio, oltre che vero, era sottile. Seppoi Di Stefano confermava che al Real Madrid c'erano tanti calciatori di grande personalità (Santamaria, Kopa, Puskas, Gento) e in campo decidevano autonomamente cosa fare, assumendosene la responsabilità e non curandosi degli allenatori che cambiavano uno dopo l'altro (Villalonga, Carniglia, Fernandez, Munoz), non potevo non credere. Se Cruyff diceva che Michels, prima di effettuare un cambio, lo chiamava per consultarsi, perché da dentro il campo si vede meglio che dalla panchina, spiegava una volta di più le difficoltà che comporta il mestiere più difficile del mondo. Se nel Padova di Rocco Mari e Celio guidavano le operazioni, se Mario David mi parlava del Milan, Ferrini del Torino e Galdiolo della Fiorentina, avevo altre conferme. Così da uomini dell'Inter di Herrera. Se si aggiungono le esperienze di vita vissuta e quelle di amici e colleghi, al tirar delle somme i dubbi spariscono.
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